L’attraversata che non possiamo capire

Prima di tornare in Cina, un’altra goccia d’Italia, d’Europa.

Rami l’ho incontrato il 28 marzo, sul treno Ventimiglia-Milano. Ero reduce da uno dei miei  collegamenti da inviata di Caterpillar. Sarà che era l’ultima settimana di lavoro prima del salto nel vuoto, sarà che arrivavo da un crescendo di emozioni fortissime (ero stata a Lampedusa, avevo intervistato il professor Olivier Roy, avevo parlato con diversi migranti …), saranno state tutte queste cose assieme, fatto sta che quel giorno, dopo aver ascoltato e fatto ascoltare in diretta nazionale Ymet – tunisino di 24 anni arrivato a Lampedusa un mese prima, scappato da Manduria, costretto a Ventimiglia da 5 giorni senza possibilità di lavarsi o dormire in un posto diverso dal pavimento freddo e bagnato -sono salita sul treno e ho cominciato a piangere. Credo fosse rabbia. Non mi ero mai sentita così impotente e inutile.

Rami era seduto nel mio stesso scompartimento, un sedile più in là. L’ho notato solo dopo che un po’ di lacrime erano già scese. Mi guardava in silenzio. A un certo punto mi ha rivolto un sorriso complice e a me è venuto spontaneo chiedergli da dove venisse. “Da Gafsa, Tunisia. Sono arrivato in Italia 6 anni fa”.

È cominciata così la nostra chiacchierata di quasi tre ore.

29 anni – la mia età. Alto, con lo sguardo dolce ma pieno di orgoglio e fierezza. Uno di quegli sguardi che – lo noti subito – vedono molto più in là di quello che stanno fissando.

Ho pensato di condividere il suo racconto con chi volesse leggerlo. Perché Rami mi ha ringraziato diverse volte solo per il fatto di averlo ascoltato. “Non avevo mai raccontato tutta la storia. Di solito non interessa a nessuno. Grazie. È stata quasi una seduta dall’analista”, mi ha detto quando siamo scesi a Milano.

Ho tentato varie volte di venire in Italia.

La prima via terra, a piedi. Avevo 19 anni. Sono arrivato fino in Grecia, ma da lì mi hanno rispedito in Turchia e infine in Tunisia.

Poi ho affrontato la traversata del Mediterraneo. Durante il primo tentativo la polizia italiana ha intercettato il nostro barcone e ci ha scortato finché non siamo entrati in acque territoriali libiche. A quel punto, la polizia di Gheddafi ci ha portati a riva e chiusi in un hangar con altre 600 persone per circa 20 giorni. Tunisini, eritrei, somali. Tutti insieme. Da mangiare, ci davano solo un pomodoro e un tozzo di pane ogni 24 ore. Se mi chiedi come mi hanno trattato, posso dire che sono ancora vivo, quindi non posso dire che mi abbiano fatto male.

Quando mi hanno liberato sono tornato in Tunisia per 4 giorni, ma tornare a casa è insopportabile per chi parte ma fallisce l’impresa. Quindi mi sono diretto nuovamente in Libia per ritentare un’altra volta l’attraversata.

Ma non mi è andata bene. Mentre ero nascosto nella sabbia e con i miei compagni aspettavo il segnale per correre in acqua e raggiungere la barca, è arrivata la polizia. Io sono riuscito a scappare, ma alcuni dei miei compagni di viaggio sono stati catturati. Pena minore, a quei tempi, 10 anni di carcere.

C’è una cosa di cui sono convinto. Voi non potete capire perché lo facciamo. Non avete proprio idea. In Tunisia non c’è libertà, bisogna perfino stare attenti a quello che si dice per la strada. Viviamo, ma non sentiamo di essere vivi. Io in Tunisia ho lavorato per guadagnare abbastanza e poter partire. Facevo il saldatore. Ogni giorno arrivava qualche poliziotto e pretendeva metà del mio stipendio quotidiano. Tutti i giorni. Puoi chiamarla vita questa? Come si fa a non voler partire?

Il terzo tentativo è stato quello buono. 1000 dinari, circa 500 euro. In 140 siamo rimasti dentro un garage a lungo ad aspettare il segnale della partenza. Siamo salpati un sabato notte. Anche in quest’occasione appartenevamo ad etnie diverse: tunisini, eritrei, somali, ciadiani, libici… C’erano anche 4 donne.

Quando il viaggio comincia sei entusiasta, pensi che finalmente stai sfruttando l’occasione della tua vita. Poi, appena la riva sparisce alle tue spalle, subentra la paura e ti chiedi “cosa cazzo sto facendo?” Ma ormai è troppo tardi per tornare indietro.

Ogni volta che la barca plana sull’onda e senti la chiglia sbattere sull’acqua e poi rialzarsi ringrazi dio. Pensi: è passato un altro secondo e io sono ancora vivo. Ma la paura che la barca non si rialzi è forte. Che si schianti, che si rovesci. O che si fermi, come è successo a noi.

Dopo diverse ore di navigazione, infatti, il motore si è rotto e siamo rimasti fermi. C’era vento, pioveva. Faceva freddo. Abbiamo cominciato a dare fuoco ad alcune magliette e ad agitarle per farci vedere dalle altre barche. Vedi questa lunga cicatrice sul polso? Mi sono arrotolato una maglia addosso e l’ho bruciata per chiedere aiuto alle navi distanti, ma è stato tutto inutile.

Poi, piano piano, le persone hanno cominciato a morire. Cioè, erano vive ma avevano gli occhi vuoti, come se fossero già morte.

Una delle ragazze era incinta e ha avuto un aborto spontaneo sulla barca. Urlava, urlava, urlava. Il marito le ha coperto le gambe con un giubbotto. Lei ha espulso dal suo corpo un grumo di sangue morto, che aveva già le sembianze di un essere umano. Non lo dimenticherò mai. L’abbiamo buttato in mare.

Siamo rimasti in balia delle onde per circa 2 giorni. Dico circa perché in mare il tempo si confonde. Di giorno tutto è blu, di notte tutto è nero. Dopo un po’ la cognizione temporale si riduce solo a questa alternanza di colori.

Ci ha incrociati una nave della polizia libica. Ci ha girato attorno un paio di volte e ci ha lasciati lì, in mezzo al nulla, con il cibo e l’acqua che cominciavano a scarseggiare. Quindi, abbiamo strappato via dalla cabina di guida alcune assi di legno per usarle come remi. Ci siamo organizzati in turni e per tre giorni ci siamo dati il cambio. Al quinto giorno non c’era già più niente da mangiare e da bere. Abbiamo cominciato a bere l’acqua del mare, a mangiare carta, borotalco… Il nostro capo era un nero. Sulle barche c’è una gerarchia molto rigida. Il clan che organizza la traversata ha i posti migliori e prende le decisioni. Mi ricordo come fosse ora il momento in cui ha indicato un quindicenne che sembrava morto nonostante respirasse ancora. Ci ha detto: “se muore, non abbiamo altra scelta che mangiarlo”.

Poi, finalmente, dopo un lungo succedersi di nero e blu, abbiamo scorto delle luci in lontananza. Erano due petroliere maltesi. Avevamo il vento contrario, quindi senza motore era impossibile avvicinarsi con la barca. Due ragazzi che sapevano nuotare si sono offerti di raggiungere a nuoto le navi per chiedere aiuto. Abbiamo calato l’ancora e loro sono partiti. Il vento, però, era troppo forte, e le onde troppo alte; restare ancorati era troppo rischioso. La barca avrebbe potuto rovesciarsi. Siamo stati costretti a levare gli ormeggi e, inevitabilmente, ci siamo allontanati sempre di più dalle due imbarcazioni, finché non le abbiamo perse di vista. In seguito, ho saputo che per fortuna i due ragazzi sono stati salvati dai maltesi.

Il settimo giorno ecco altre luci. Questa volta erano quelle di Lampedusa. La guardia costiera ci è venuta incontro e ci ha scortato fino al molo. Miracolosamente, eravamo tutti vivi. Quando siamo scesi dal barcone e abbiamo appoggiato i piedi a terra, siamo caduti dal primo all’ultimo. Dopo giorni e giorni di mare, nessuno è riuscito a mantenere l’equilibrio. Io ho trascorso due giorni disteso prima di essere in grado di rialzarmi senza che mi girasse la testa. A Lampedusa ci hanno dato acqua e cibo, vestiti asciutti.

Ero felicissimo. Era come se fossi rinato. Su quell’isola è cominciata la mia seconda vita. È per questo che io festeggio il compleanno due volte: il 13 marzo, il mio compleanno anagrafico; il 25 giugno, la data del mio sbarco in Italia.

Dopo tre giorni sull’isola mi hanno spedito nel centro di accoglienza di Crotone. Sono riuscito a scappare e sono andato a Napoli, dove ho conosciuto dei tunisini che andavano a Foggia. Mi sono unito a loro e ho lavorato per una settimana come vendemmiatore. Ma non mi pagavano e io ero troppo stanco: non dormivo praticamente da un mese. Sono scappato di nuovo e questa volta ho cercato di raggiungere Venezia, dove vivevano alcuni miei amici tunisini. Arrivato a Mestre mi hanno portato in una casa abbandonata dov’erano accampati un sacco di immigrati. Ho dormito quattro giorni di fila, senza pausa. Per 5 – 6 mesi sono rimasto lì. Cercavo lavoro, ma non trovavo niente. Un giorno mentre stavo appisolato sotto la pensilina di una fermata dell’autobus, una ragazza che veniva lì tutti i giorni mi ha invitato a casa sua affinché potessi lavarmi. Io all’inizio ho rifiutato, poi ho accettato e sono stato da lei due giorni. Mi ha comprato dei vestiti nuovi e mi ha presentato due marocchini che vivevano in Italia da tanti anni. Grazie a loro ho cominciato a lavorare a Marghera, come saldatore. Guadagnavo 50 euro al giorno e lavoravo tre giorni a settimana. Ho fatto questo lavoro per tre anni. A nero, naturalmente. Rimanevo un clandestino, quindi, ho cominciato ad avere paura e sono tornato in Sicilia, dove i controlli sono meno severi. Ma sull’isola mi pagavano la metà e lavoravo anche 13 ore al giorno, quindi sono tornato a Marghera e ho cominciato a vendere i fiori. Poi mi sono trasferito a Bruxelles, dove vivo da quasi due anni. Adesso sto andando a Venezia a prendere due amici tunisini che sono arrivati da Lampedusa. Spero di riuscire a portarli a Bruxelles con me. Posso aiutarli a trovare lavoro. Ma il mio sogno è quello di tornare in Italia. L’Italia mi piace tanto.

Sto aspettando che la situazione in Tunisia si stabilizzi, vorrei tornare a far visita a mia madre. Non la vedo da più di sei anni, anche se ogni tanto la sento al telefono. Mi mancano, lei, le mie sorelle e la mia terra.

Come mi vedo tra 10 anni? Mi vedo sposato, padre di due bambini. Mi vedo vivo in un posto in cui sto bene e dove mi sento libero.


Da Pechino a Lampedusa

La Cina è una grande frontiera, quella che probabilmente ci separa dal futuro. Dal 26 febbraio al 5 marzo ho visitato un altro luogo estremo, un altro punto di passaggio e di passaggi. Una porta: Lampedusa. So che il tema di questo diario, scritto per il sito di Caterpillar, sembrerà non c’entrare moltissimo con i materiali che solitamente entrano ed escono dall’offiCina. Eppure forse qualcosa in comune esiste, tra il lembo di terra più a sud dell’Italia e il continente in cui ho vissuto negli ultimi anni. Esiste ed ha a che fare con il nostro paese, con la Cina e con il futuro di entrambi.
E manco a dirlo, a Lampedusa ho incontrato anche la Cina. Nei panni di due cronisti della CCTV, inviati dei giganti nella terra dei lillipuziani.

PICCOLO DIZIONARIO DEL MIO VIAGGIO A LAMPEDUSA

ARRIVO. L’arrivo a Lampedusa mi spaventava. Avevo letto articoli e visto servizi al Tg che descrivevano una situazione allarmante. E il sindaco ci aveva messo del suo emettendo un’ordinanza che vietava “l’accattonaggio e i comportamenti non decorosi” e dichiarando che le donne lampedusane avevano paura di uscire di casa per i troppi tunisini a zonzo per il centro del paese.
Hanno ragione i lampedusani quando dicono che i media distorcono la realtà. Io aggiungo che anche i politici non scherzano. La situazione dell’isola è complessa, ma tutt’altro che pericolosa.

BAFFI. Quelli imperiali di Sandro Ruotolo, incontrati per caso dentro il tempo di un caffè alle 9 del mattino.

CENTRO DI ACCOGLIENZA. Ho provato ad entrarci inutilmente per 5 volte, senza mai ricevere il permesso. Nei miei primi giorni a Lampedusa i suoi cancelli erano aperti e i ragazzi tunisini andavano e venivano. Poi si è tornati alla normalità: immigrati dentro e resto del paese fuori. Due mondi mantenuti completamente separati.

DISPERSI. Ho incontrato Salvatore Tuccio per caso, sulla strada che portava al centro di accoglienza. A causa del maltempo aveva aspettato la barca 7 giorni per portare da Linosa a Lampedusa un mazzo di foto ricevute da amici tunisini. 29 fotografie, 29 volti di persone scomparse il 14 febbraio 2011, in seguito allo speronamento compiuto da una motovedetta tunisina ai danni di un barcone carico di migranti al largo di Gabes. Approcciava i giovani magrebini.
“Li riconosci? Hai mai visto questi ragazzi?”
“No, non li conosco…”
“Si, lui so chi è. Veniamo dallo stesso villaggio. Ma so che è morto…”
29 volti. Il più giovane, quello di un sedicenne.

ESTREMO ORIENTE. In chi altro potevo andare a imbattermi io in un’isola minuscola di 6000 abitanti dispersa nel Mediterraneo se non in due distinti signori cinesi??? Giornalisti della CCTV, la più importante rete televisiva della Repubblica Popolare Cinese (raggiunge picchi di 800 milioni di spettatori). Mi chiedono aiuto nella traduzione di un’intervista, e io ovviamente li sfrutto per il collegamento in diretta. Mi tolgo pure una curiosità: come si mangia nella mensa della CCTV? Mi umiliano. Sembra che la “Rai cinese” sia famosa per offrire pranzi rinomatissimi. Questi cinesi sono davvero avanti.

FELICITÀ. La felicità di chi sbarca stremato ma vivo dall’altra parte del mare e come primo gesto grida “Grazie Lampedusa”.

GIOVANI. Cosa fanno i giovani di Lampedusa? Come vivono? Ho cercato a lungo questa risposta. Ho scoperto che tanti – inevitabilmente – se ne vanno, anche loro migranti. E continuano a sentire dentro il forte legame con “lo scoglio”, come chiamano la loro l’isola. Rimane solo chi decide di imparare il mestiere di pescatore o chi riesce a trovare un lavoro nel settore della ristorazione. Antonino e Giacomo però non si arrendono, e assieme ad alcuni coetanei hanno messo in piedi la onlus “Alternativa Giovani” per creare occasioni di socialità e sensibilizzazione nei confronti delle problematiche dell’isola. Gianfranco e Eletta, invece, assieme a Paola, hanno recuperato la storia di Lampedusa “ponte” tra due sponde. “Perché Lampedusa non è una porta come dicono tutti”, mi dice Gianfranco, “è un ponte”.

HAMDI. 26enne tunisino. Lo incontro in via Roma, la strada principale del paese. Gli faccio una breve intervista video. Termino la registrazione, ma lui continua a parlare. È arrivato in Italia al suo quarto tentativo di attraversamento del Mediterraneo. “Per tre volte la guardia costiera tunisina mi ha rispedito indietro”, dice. “Ho tentato anche il percorso via terra: non avevo più soldi, mi restavano solo le gambe, così mi sono messo a camminare… Sono riuscito ad arrivare fino in Albania, ma lì mi hanno rimandato in Tunisia”. Parla un italiano quasi perfetto, dice che l’ha imparato guardando Vespa e Marzullo. Dice che sono proprio la Televisione e Internet che l’hanno convinto che l’Italia sia un bel posto, il posto giusto. E’ partito col mare in burrasca, aveva paura, ma piuttosto che restare in Tunisia avrebbe preferito morire. Si ricorda bene di una ragazza che ha viaggiato con lui e gli altri 200. Era incinta all’ottavo mese. Il rischio era che partorisse in viaggio. Per fortuna non è successo e ora anche lei è in Italia. Ha la faccia che è un sorriso, Hamdi.

ISOLA. A Lampedusa sei lontano da tutto. Se la nave dalla Sicilia non arriva (e durante la mia permanenza non è arrivata per 7 giorni), gli scaffali dei supermercati si svuotano senza essere riforniti, la frutta scarseggia e piano piano diventa marcia, la carne finisce, la posta non parte. Se hai bisogno di un intervento medico, di una radiografia, se devi partorire, estrarre un dente ti tocca prendere l’aereo per Palermo e pagarti un albergo là, se non hai la fortuna di avere qualche parente pronto ad ospitarti. Se finisci le scuole medie, non vuoi smettere di studiare ma pensi che il liceo scientifico – l’unica scuola secondaria presente sull’isola – sia troppo impegnativo per te, devi andare via di casa. A 14 anni.
Lontano da tutto, ma anche al centro del mondo. Sulle prime pagine di tutti i giornali. Anche se a Lampedusa, ironia della sorte, i giornali non arrivano più.

LIBRI. I libri che ho letto per prepararmi al viaggio. Tra tutti, Mamadou va a morire e Il mare di mezzo di Gabriele Del Grande. Giovane freelance, il più attento a seguire le storie di chi tenta il disperato assalto alla Fortress Europe.

MARE. Il mare più bello che abbia visto in vita mia, ma anche il mare che più mi ha inquietata. Di notte l’ho visto nero e arrabbiato, ho sentito il suo rumore. Ho pensato alle barche minuscole che lo sfidano lo stesso.

NUMERI. 20, 45, 72. Scritti a penna, in nero, su dei piccoli brandelli di carta apparentemente insignificanti. Custoditi come tesori dai giovani tunisini. Fogli di via che scandiscono l’ordine di imbarco su un aereo o una nave alla volta di un Cie in qualche altra parte d’Italia.

OSPITALITÀ. Quella grande degli abitanti dell’isola. Sempre gentili e disponibili, nonostante non ne potessero più dei giornalisti.

PESCATORI. In sciopero dai primi di febbraio per protestare contro il prezzo esagerato del gasolio (circa 30 centesimi in più rispetto alla Sicilia), hanno reso impossibile la mia missione di approfittare di una località marina per abbuffarmi di pesce fino a stare male. Dico solo che durante l’ultima cena a Lampedusa ho dovuto ripiegare su una bacinella di agnolotti in brodo!!!
Il pescatore Enzo Billeci mi ha raccontato di quando gli è capitato di incontrare in mare le barche dei migranti e di come ha cercato di aiutarli. Spesso meno di quanto avrebbe voluto a causa delle severi leggi legate al traffico di uomini.

QUANDO. Col punto di domanda, nel tipico dialogo tra i giornalisti sull’isola:
“Quando arrivano?”
“È previsto un barcone verso le 14”.
“Ah si? A me hanno detto le 15…”

RESPIRO. Il film di Emanuele Crialese. Per me, prima di questo viaggio, Lampedusa era soprattutto questa pellicola.

SBARCO. Il primo a cui ho assistito, quasi ibernata, alle 3 di mattina del 2 marzo. Più di 300 persone in mare da 4 giorni. Un’isolana acquisita, Paola, accompagna una cronista straniera e fotografa il cinismo dei media: “la prima domanda dei giornalisti è sempre QUANTI SONO, mai COME STANNO”…

TOMBE. Vincenzo Lombardo, la banalità del bene. L’uomo che già nel 1996 affrontava l’emergenza sbarchi, dando una sepoltura ai corpi dei migranti restituiti dal mare alle coste dell’isola. Non era compito suo, lui era soltanto il custode del cimitero. Ma una croce non si deve negare a nessuno, e nemmeno un fiore. E che tristezza quelle sterpaglie che hanno invaso la tomba di Mohammed da quando lui è andato in pensione, quattro anni fa. Vincenzo che guarda il Mediterraneo e sospira: “troppi morti in quelle acque, ci vorrebbe una messa…”.

UNHCR. Delicatissimo il lavoro dell’Alto Commissariato ONU per i Rifugiati e della sua portavoce Laura Boldrini.

VINCENT. Come Padre Vincent. Originario della Tanzania, da 5 anni prete a Lampedusa. Scherza coi bimbi dell’isola e li invita a rassicurare i genitori circa possibili pericoli provenienti dal Nord Africa: “Dite loro che non devono preoccuparsi, Padre Vincent è molto più nero dei tunisini…”

ZOCCOLO. Quello che ho visto per terra nel cimitero delle barche, il luogo in cui vengono ammucchiate le imbarcazioni con cui i clandestini raggiungono l’Italia. Il cantautore Giacomo Sferlazzo con la sua associazione culturale Askavusa ha cominciato a raccogliere gli oggetti che si trovano in queste particolari discariche e li ha esposti nel piccolo Museo dell’immigrazione. Per mantenere la memoria. Per rispettare la memoria. Per non dimenticare.

Cuore di Mamma Wu

In Italia esiste l’Agedo, Associazione GEnitori Di Omosessuali. Uomini e donne coraggiosi che stanno dalla parte giusta, gente che come il padre di Ivan Scalfarotto “non ha detto una cazzata” nel momento cruciale dei momenti cruciali.

Quando mi decisi a raggiungerlo in un luogo di Milano per bere qualcosa insieme, lui era furibondo. Si sentiva preso in giro, avvertiva che c’era qualcosa che non andava, capiva che volevo tenerlo lontano da casa mia e si domandava il perché. Colsi l’attimo: «D’accordo: c’è una cosa che non sai e che devi sapere, altrimenti non potrai entrare in casa mia né oggi né mai». «Hai una donna?». «No, ho un uomo». Passarono tre interminabili secondi nei quali lui mi ha poi confessato di avere pensato qualcosa tipo: «Non posso dire una cazzata, ora. Quello che dirò adesso mio figlio se lo ricorderà per sempre». Finalmente uscì un «Ebbè?». Proprio così: «Ebbè?».

Ivan Scalfarotto, In nessun paese, Piemme.

Gente che si batte perché l’Italia diventi un paese moderno e inclusivo. E perché possa finalmente reggere il confronto con i paesi che la circondano in materia di diritti civili. I cinesi, nel loro (grandissimo) piccolo, non hanno l’Agedo. Però hanno Mamma Wu.

Anche Mamma Wu, al secolo Wu Youjian, 63 anni, davanti al coming out del figlio Zheng Yuantao non ha detto una cazzata.

“Gli ho detto che non c’era niente di sbagliato e che non era un grosso problema”, ricorda. Un piccolo capolavoro di anticonformismo, nella Cina che, nonostante non consideri da tempo l’omosessualità un reato o una malattia, preferisce in ossequio alla tradizione vedere i propri figli sposati, al fianco di una persona rigorosamente del sesso opposto. E Mamma Wu, quella che è il contrario di una cazzata, ha pensato di andarla a dire in Tv, davanti alle telecamere dei media di stato. E si sa che nel Gigante Asiatico, parlare in Tv significa rivolgersi spesso a folle oceaniche.

Zheng Yuantao è consapevole di essere un caso particolarmente raro e fortunato. I suoi amici gay spesso subiscono estenuanti pressioni da parte degli ignari genitori. Padri e madri esasperati ogni giorno in Cina cercano personalmente una fidanzata per gli eredi maschi, quelli con le vedute più strette li indirizzano verso terapie psichiatriche, altri ancora, per la vergogna, troncano i legami familiari con i figli gay.

Nel frattempo, aumenta il numero dei suicidi tra gli omosessuali. Le cifre fanno impressione: un giovane gay su tre, in Cina, tenta di togliersi la vita. In grande ascesa, negli ultimi anni, anche il fenomeno dei matrimoni paravento, con coppie formate da un gay e una lesbica che pur di conservare il proprio stile di vita decidono di simulare una condotta del tutto conforme alle regole della tradizione.

Mamma Wu è consapevole di aver urtato, con la sua scelta di battersi all’interno della comunità gay, la sensibilità di molti cinesi. Ha incassato sarcasmi e critiche, talora offese. “Ha condotto i nostri figli in luoghi più sporchi dei bordelli”, si è detto di lei. “Ha velocizzato la morte morale di una società già malata”, ha ringhiato qualcuno. Wu Youjian ha tirato dritto, pensando soltanto alla concretezza dell’aiuto che poteva fornire ai ragazzi come suo figlio.

Giornalista in pensione, Mamma Wu ha aperto un blog da 2,2 milioni di visite, ha iniziato ad utilizzare Twitter, ha lanciato un numero verde e ha fornito la spinta propulsiva alla nascita di un vivace associazionismo da parte di familiari e amici di gay e lesbiche. Nella Cina assorbita dai ritmi frenetici dello sviluppo economico, da sempre ancorata ai valori della famiglia tradizionale, vanno alla deriva gli individui, naufragano le felicità singolari. Non soltanto nel mondo GLBT. Mamma Wu sembra guardare verso un’altra Cina. In un nuovo libro, “L’amore è il più bell’arcobaleno”, racconterà le storie incontrate nella sua seconda vita, quando da madre del giovane Zheng Yuantao è diventata la madre di tanti, tantissimi gay cinesi.

La Cina conta (anche me)

Quelli di Caterpillar mi hanno chiesto di raccontare sul loro blog la mia esperienza di italiana che vive in Cina alle prese con il Censimento 2010. Ne è nato questo raccontino autobiografico che nel suo piccolo completa un discorso più ampio e serioso già affrontato su offiCina.

Sapevo che prima o poi sarebbero arrivati anche da me. Per più di due mesi ho incrociato articoli, slogan, cartelloni pubblicitari e ho addirittura ricevuto telefonate e sms che me lo ricordavano. Dal 1 al 10 novembre 6 milioni e mezzo di addetti si sarebbero distribuiti in ogni angolo del paese per portare a termine il più grande censimento della storia.

“Collaborate con gli addetti al censimento”, “il censimento serve alla nazione, ma anche ai cittadini”, “partecipate al censimento”, “portare a termine positivamente il censimento per servire la causa della costruzione di una Pechino armoniosa”… Ero pronta. Mi aspettavo arrivassero minimo tre persone in uniforme, sfoderassero un lungo elenco di domande, mi controllassero i documenti, mi espellessero per aver parlato di Liu Xiaobo a Caterpillar. E invece… niente di tutto questo. Un timido toc toc mi ha distolta dal lavoro un pomeriggio della scorsa settimana. Fuori dalla porta, una ragazza poco più che ventenne ancora più timida del suo bussare. Stupita che la facessi entrare senza fare storie e con il sorriso sulle labbra. Mi sa che è proprio vero che durante il censimento di quest’anno la gente è stata diffidente e ha aperto la porta – se l’ha aperta – controvoglia per timore di rilasciare informazioni personali al governo. Le ho offerto qualcosa da bere. Non ne ha voluto sapere. Si è seduta sul divano pezzato dalmata che occupa gran parte del salotto (scelta di arredamento della padrona di casa) e ha cercato il mio nome su una lunga lista. In meno di 45 secondi ha compilato il modulo: sesso, nazionalità, periodo di permanenza in Cina… Non ha voluto il mio nome italiano, solo quello cinese. Saiyu. Ho firmato. Si è alzata e prima di lanciarsi verso la porta per uscire mi ha dato gli “omaggi per la collaborazione”: un piccolo asciugamano rosa e due borse di tela per fare la spesa ecologica firmati “China Population Census”. Non ho fatto in tempo a scattarle una foto per testimoniare il momento storico che era già scivolata dentro il buio del pianerottolo.

Quando sentirete di quegl’unmiliardoquattrocentocinquantamilionisettecentotrentatremiladuecentoventuno abitanti… Beh, quell’uno sono io!

Giada Messetti, corrispondente 0083 da Pechino

Hanno voluto la bicicletta e adesso pedalano

Le fotografie di Alain Delorme (francese, trentunenne) non inseguono certo il realismo. Giocano piuttosto con con la fantasia e scherzano pesantemente con i colori naturali e soprattutto con le leggi della fisica. Alzi la mano, però, il frequentatore della Cina che non si sia imbattuto – nelle strade di Pechino, di Shanghai, di qualche altra città – in un carretto a pedali davvero inverosimile, oltre ogni umana concezione di “carico”.

[cincopa AYAAfVK62Ems]

Constatazioni poco amichevoli

E’ comparso su internet  il video che probabilmente riaccenderà ancora una volta i toni della disputa sino-giapponese sulle isole Diaoyu. Da quando il 7 settembre scorso un peschereccio cinese ha speronato una motovedetta nipponica in acque contese, la tensione diplomatica tra i due giganti asiatici ha continuato a salire.

Non è ancora chiaro come il video sia finito su internet, visto che le autorità giapponesi stanno vagliando la sua autenticità proprio in questi giorni.

RetroffiCina. Un blog nel blog.

Una poesia di Liu Xiaobo. Il Nobel per la Pace che anche con la Letteratura non scherza

È passata quasi una settimana dall’assegnazione del Premio Nobel per la Pace al dissidente cinese Liu Xiaobo. Nei vari articoli che compaiono sui giornali in questi giorni, Xiaobo viene definito anche “professore, critico letterario e poeta”. Grazie al Premio Nobel, ormai sappiamo molto dei suoi scritti politici, soprattutto di Charta 08, il documento diffuso nell’anno delle Olimpiadi per chiedere aperture e riforme politiche che gli è costato la pena di 11 anni di detenzione in un carcere nella sperduta provincia del Liaoning.

Meno conosciuta, al momento, la produzione letteraria di Liu Xiaobo. Stando ai versi che offiCina pubblica in questo post, composti nel 2000 e dedicati alla moglie Liu Xia, pare evidente come VITA (le sue idee e le battaglie per poterle esprimere liberamente) e OPERE siano, come spesso accade per gli artisti, assolutamente inscindibili.

Dalla rete riemerge anche un audio prezioso: Liu Xiaobo letto da Paul Auster. Una piccola chicca, e un altro tassello utile a conoscere meglio il Nobel per la Pace 2010.

One Letter Is Enough

for Xia

one letter is enough
for me to transcend and face
you to speak

as the wind blows past
the night
uses its own blood
to write a secret verse
that reminds me each
word is the last word

the ice in your body
melts into a myth of fire
in the eyes of the executioner
fury turns to stone

two sets of iron rails
unexpectedly overlap
moths flap toward lamp
light, an eternal sign
that traces your shadow

8. 1. 2000

Una lettera mi basta

per Xia

una lettera mi basta
per andare oltre e
trovarmi a parlare con te

proprio come il vento che attraversa
la notte
e usa il suo sangue
per scrivere un verso segreto
che mi ricorda che ogni parola
è l’ultima

il ghiaccio che hai nel corpo
si scioglie in una leggenda di fuoco
negli occhi del carnefice
l’ira diventa pietra

due file di sbarre di ferro
inaspettatamente si sovrappongono
falene sbattono forte le ali verso
la luce della lampada, segno incessante
che disegna la tua ombra

8. 1. 2000

Traduzione in inglese: Jeffrey Yang
Traduzione in italiano: Maria Cristina Donda

[cincopa A8KA2SaE4WLs]

Il Premio Nobel, a mente fredda

Un premio Nobel per la Pace dato a un dissidente cinese nonostante gli avvertimenti di Pechino. L’Occidente sfida e punta il dito contro la Cina. La Cina reagisce con un comunicato violento e un silenzio – assordante per noi che viviamo a cavallo tra due mondi – in patria.

In questi giorni ho letto tanto su questa vicenda. Cronache, approfondimenti, e commenti. Molti giornalisti stranieri si limitano a descrivere una Cina crudele e strizzano l’occhio esclusivamente a quello che l’Occidente ha bisogno di sentirsi dire. Bianco contro nero, bene contro male. Purtroppo, la realtà è molto più complicata. L’analisi più lucida mi sembra quella di Francesco Sisci sulla Stampa. La trovate cliccando qui.

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