Prima di tornare in Cina, un’altra goccia d’Italia, d’Europa.
Rami l’ho incontrato il 28 marzo, sul treno Ventimiglia-Milano. Ero reduce da uno dei miei collegamenti da inviata di Caterpillar. Sarà che era l’ultima settimana di lavoro prima del salto nel vuoto, sarà che arrivavo da un crescendo di emozioni fortissime (ero stata a Lampedusa, avevo intervistato il professor Olivier Roy, avevo parlato con diversi migranti …), saranno state tutte queste cose assieme, fatto sta che quel giorno, dopo aver ascoltato e fatto ascoltare in diretta nazionale Ymet – tunisino di 24 anni arrivato a Lampedusa un mese prima, scappato da Manduria, costretto a Ventimiglia da 5 giorni senza possibilità di lavarsi o dormire in un posto diverso dal pavimento freddo e bagnato -sono salita sul treno e ho cominciato a piangere. Credo fosse rabbia. Non mi ero mai sentita così impotente e inutile.
Rami era seduto nel mio stesso scompartimento, un sedile più in là. L’ho notato solo dopo che un po’ di lacrime erano già scese. Mi guardava in silenzio. A un certo punto mi ha rivolto un sorriso complice e a me è venuto spontaneo chiedergli da dove venisse. “Da Gafsa, Tunisia. Sono arrivato in Italia 6 anni fa”.
È cominciata così la nostra chiacchierata di quasi tre ore.
29 anni – la mia età. Alto, con lo sguardo dolce ma pieno di orgoglio e fierezza. Uno di quegli sguardi che – lo noti subito – vedono molto più in là di quello che stanno fissando.
Ho pensato di condividere il suo racconto con chi volesse leggerlo. Perché Rami mi ha ringraziato diverse volte solo per il fatto di averlo ascoltato. “Non avevo mai raccontato tutta la storia. Di solito non interessa a nessuno. Grazie. È stata quasi una seduta dall’analista”, mi ha detto quando siamo scesi a Milano.
Ho tentato varie volte di venire in Italia.
La prima via terra, a piedi. Avevo 19 anni. Sono arrivato fino in Grecia, ma da lì mi hanno rispedito in Turchia e infine in Tunisia.
Poi ho affrontato la traversata del Mediterraneo. Durante il primo tentativo la polizia italiana ha intercettato il nostro barcone e ci ha scortato finché non siamo entrati in acque territoriali libiche. A quel punto, la polizia di Gheddafi ci ha portati a riva e chiusi in un hangar con altre 600 persone per circa 20 giorni. Tunisini, eritrei, somali. Tutti insieme. Da mangiare, ci davano solo un pomodoro e un tozzo di pane ogni 24 ore. Se mi chiedi come mi hanno trattato, posso dire che sono ancora vivo, quindi non posso dire che mi abbiano fatto male.
Quando mi hanno liberato sono tornato in Tunisia per 4 giorni, ma tornare a casa è insopportabile per chi parte ma fallisce l’impresa. Quindi mi sono diretto nuovamente in Libia per ritentare un’altra volta l’attraversata.
Ma non mi è andata bene. Mentre ero nascosto nella sabbia e con i miei compagni aspettavo il segnale per correre in acqua e raggiungere la barca, è arrivata la polizia. Io sono riuscito a scappare, ma alcuni dei miei compagni di viaggio sono stati catturati. Pena minore, a quei tempi, 10 anni di carcere.
C’è una cosa di cui sono convinto. Voi non potete capire perché lo facciamo. Non avete proprio idea. In Tunisia non c’è libertà, bisogna perfino stare attenti a quello che si dice per la strada. Viviamo, ma non sentiamo di essere vivi. Io in Tunisia ho lavorato per guadagnare abbastanza e poter partire. Facevo il saldatore. Ogni giorno arrivava qualche poliziotto e pretendeva metà del mio stipendio quotidiano. Tutti i giorni. Puoi chiamarla vita questa? Come si fa a non voler partire?
Il terzo tentativo è stato quello buono. 1000 dinari, circa 500 euro. In 140 siamo rimasti dentro un garage a lungo ad aspettare il segnale della partenza. Siamo salpati un sabato notte. Anche in quest’occasione appartenevamo ad etnie diverse: tunisini, eritrei, somali, ciadiani, libici… C’erano anche 4 donne.
Quando il viaggio comincia sei entusiasta, pensi che finalmente stai sfruttando l’occasione della tua vita. Poi, appena la riva sparisce alle tue spalle, subentra la paura e ti chiedi “cosa cazzo sto facendo?” Ma ormai è troppo tardi per tornare indietro.
Ogni volta che la barca plana sull’onda e senti la chiglia sbattere sull’acqua e poi rialzarsi ringrazi dio. Pensi: è passato un altro secondo e io sono ancora vivo. Ma la paura che la barca non si rialzi è forte. Che si schianti, che si rovesci. O che si fermi, come è successo a noi.
Dopo diverse ore di navigazione, infatti, il motore si è rotto e siamo rimasti fermi. C’era vento, pioveva. Faceva freddo. Abbiamo cominciato a dare fuoco ad alcune magliette e ad agitarle per farci vedere dalle altre barche. Vedi questa lunga cicatrice sul polso? Mi sono arrotolato una maglia addosso e l’ho bruciata per chiedere aiuto alle navi distanti, ma è stato tutto inutile.
Poi, piano piano, le persone hanno cominciato a morire. Cioè, erano vive ma avevano gli occhi vuoti, come se fossero già morte.
Una delle ragazze era incinta e ha avuto un aborto spontaneo sulla barca. Urlava, urlava, urlava. Il marito le ha coperto le gambe con un giubbotto. Lei ha espulso dal suo corpo un grumo di sangue morto, che aveva già le sembianze di un essere umano. Non lo dimenticherò mai. L’abbiamo buttato in mare.
Siamo rimasti in balia delle onde per circa 2 giorni. Dico circa perché in mare il tempo si confonde. Di giorno tutto è blu, di notte tutto è nero. Dopo un po’ la cognizione temporale si riduce solo a questa alternanza di colori.
Ci ha incrociati una nave della polizia libica. Ci ha girato attorno un paio di volte e ci ha lasciati lì, in mezzo al nulla, con il cibo e l’acqua che cominciavano a scarseggiare. Quindi, abbiamo strappato via dalla cabina di guida alcune assi di legno per usarle come remi. Ci siamo organizzati in turni e per tre giorni ci siamo dati il cambio. Al quinto giorno non c’era già più niente da mangiare e da bere. Abbiamo cominciato a bere l’acqua del mare, a mangiare carta, borotalco… Il nostro capo era un nero. Sulle barche c’è una gerarchia molto rigida. Il clan che organizza la traversata ha i posti migliori e prende le decisioni. Mi ricordo come fosse ora il momento in cui ha indicato un quindicenne che sembrava morto nonostante respirasse ancora. Ci ha detto: “se muore, non abbiamo altra scelta che mangiarlo”.
Poi, finalmente, dopo un lungo succedersi di nero e blu, abbiamo scorto delle luci in lontananza. Erano due petroliere maltesi. Avevamo il vento contrario, quindi senza motore era impossibile avvicinarsi con la barca. Due ragazzi che sapevano nuotare si sono offerti di raggiungere a nuoto le navi per chiedere aiuto. Abbiamo calato l’ancora e loro sono partiti. Il vento, però, era troppo forte, e le onde troppo alte; restare ancorati era troppo rischioso. La barca avrebbe potuto rovesciarsi. Siamo stati costretti a levare gli ormeggi e, inevitabilmente, ci siamo allontanati sempre di più dalle due imbarcazioni, finché non le abbiamo perse di vista. In seguito, ho saputo che per fortuna i due ragazzi sono stati salvati dai maltesi.
Il settimo giorno ecco altre luci. Questa volta erano quelle di Lampedusa. La guardia costiera ci è venuta incontro e ci ha scortato fino al molo. Miracolosamente, eravamo tutti vivi. Quando siamo scesi dal barcone e abbiamo appoggiato i piedi a terra, siamo caduti dal primo all’ultimo. Dopo giorni e giorni di mare, nessuno è riuscito a mantenere l’equilibrio. Io ho trascorso due giorni disteso prima di essere in grado di rialzarmi senza che mi girasse la testa. A Lampedusa ci hanno dato acqua e cibo, vestiti asciutti.
Ero felicissimo. Era come se fossi rinato. Su quell’isola è cominciata la mia seconda vita. È per questo che io festeggio il compleanno due volte: il 13 marzo, il mio compleanno anagrafico; il 25 giugno, la data del mio sbarco in Italia.
Dopo tre giorni sull’isola mi hanno spedito nel centro di accoglienza di Crotone. Sono riuscito a scappare e sono andato a Napoli, dove ho conosciuto dei tunisini che andavano a Foggia. Mi sono unito a loro e ho lavorato per una settimana come vendemmiatore. Ma non mi pagavano e io ero troppo stanco: non dormivo praticamente da un mese. Sono scappato di nuovo e questa volta ho cercato di raggiungere Venezia, dove vivevano alcuni miei amici tunisini. Arrivato a Mestre mi hanno portato in una casa abbandonata dov’erano accampati un sacco di immigrati. Ho dormito quattro giorni di fila, senza pausa. Per 5 – 6 mesi sono rimasto lì. Cercavo lavoro, ma non trovavo niente. Un giorno mentre stavo appisolato sotto la pensilina di una fermata dell’autobus, una ragazza che veniva lì tutti i giorni mi ha invitato a casa sua affinché potessi lavarmi. Io all’inizio ho rifiutato, poi ho accettato e sono stato da lei due giorni. Mi ha comprato dei vestiti nuovi e mi ha presentato due marocchini che vivevano in Italia da tanti anni. Grazie a loro ho cominciato a lavorare a Marghera, come saldatore. Guadagnavo 50 euro al giorno e lavoravo tre giorni a settimana. Ho fatto questo lavoro per tre anni. A nero, naturalmente. Rimanevo un clandestino, quindi, ho cominciato ad avere paura e sono tornato in Sicilia, dove i controlli sono meno severi. Ma sull’isola mi pagavano la metà e lavoravo anche 13 ore al giorno, quindi sono tornato a Marghera e ho cominciato a vendere i fiori. Poi mi sono trasferito a Bruxelles, dove vivo da quasi due anni. Adesso sto andando a Venezia a prendere due amici tunisini che sono arrivati da Lampedusa. Spero di riuscire a portarli a Bruxelles con me. Posso aiutarli a trovare lavoro. Ma il mio sogno è quello di tornare in Italia. L’Italia mi piace tanto.
Sto aspettando che la situazione in Tunisia si stabilizzi, vorrei tornare a far visita a mia madre. Non la vedo da più di sei anni, anche se ogni tanto la sento al telefono. Mi mancano, lei, le mie sorelle e la mia terra.
Come mi vedo tra 10 anni? Mi vedo sposato, padre di due bambini. Mi vedo vivo in un posto in cui sto bene e dove mi sento libero.